Pensieri

Il corpo e il cuore di Daniel Capurro

“L’infanzia termina quando si incontra la morte per la prima volta”.
Purtroppo non ricordo a chi appartenga questa frase, ma credo sia una grande, triste, terribile verità. Ed è una verità che tutta l’Italia ha provato sulla propria pelle in questi giorni. Forse è stato per questo motivo, per questo penoso e difficile distacco dall’infanzia, dall’innocenza, da uno stato di beata incoscienza, che il cosiddetto “caso Englaro” ha suscitato tanto clamore: come non accadeva da tempo, tutti noi abbiamo dovuto forzatamente confrontarci con la morte.
Mi torna alla mente la tragedia di Vermicino, quando per lunghe, terribili ore tutt’Italia era rimasta con il fiato sospeso sperando, pregando ed infine assistendo impotente alla triste morte del piccolo Alfredino Rampi. Allora come oggi, la vicenda aveva scosso fortemente gli animi; ma quello che nei giorni scorsi ha avuto la sua conclusione è un caso ancor più difficile da affrontare, perché qui sono state messe a nudo nei nostri cuori corde fra le più sensibili: la paura dell’abbandono, della sofferenza, della morte che non finisce.
Eppure tutti noi, almeno una volta, abbiamo vissuto il logorante dolore di avere un genitore, un parente, una persona cara che non riesce a morire.
E ognuno di noi -anche solo per un istante, magari vergognandosene dopo, ma inevitabilmente- si sarà chiesto “ma poveretto, non potrebbe smettere di soffrire?”
Io l’ho sempre pensato, e non mi vergogno di ammetterlo; credo che l’empatia, il soffrire per il dolore degli altri, sia una delle caratteristiche che ci distinguono dagli animali. Per questo sono… non posso dire contento, ma rasserenato per la conclusione della vicenda che tanto ha diviso l’Italia.
“C’è sempre una speranza”, “la vita è sempre sacra”. Queste sono le obiezioni che più frequentemente ho  sentito, e sono tutte cose vere. Ma provate a pensare, invece di usare frasi fatte. Provate a pensare allo strazio di una famiglia che vede la propria gioia, la propria speranza, il proprio futuro giacere in un letto, un simulacro, una spoglia silenziosa, una non-persona che ha l’aspetto -e nient’altro che l’aspetto- di una figlia, una sorella, un’amica. Provate a pensare a cosa possa voler dire vedere la propria figlia esistere -non vivere, non crescere, semplicemente esserci- per 17 anni- diciassette anni! Più di 6mila giorni, 150mila ore, 10 milioni di battiti di cuore.
Oltretutto, io, come tutti voi, della signorina Englaro -e non la chiamerò Eluana come ormai tutti fanno, neanche fosse un personaggio di una soap opera o di un reality show; mi pare che la sua condizione esiga quanto meno un minimo di rispetto- dicevo, noi della signorina Englaro conosciamo solo l’aspetto che aveva un tempo, prima dell’incidente, prima del coma, prima di diventare un corpo e basta. Ma provate ad immaginare lo scempio che il tempo, la non-vita possono aver fatto di quella che era una ragazza, e che ora è una donna -sempre che si possa chiamare “donna” una persona che non è cresciuta ma invecchiata, che ha solo aggiunto anni agli anni senza mai vivere davvero. E provate ad immaginare cosa possa significare per un padre entrare nella stanza dell’ospedale e vedere quella…cosa, quella bambola di carne che ha l’aspetto di vostra figlia ma che non lo è, e non lo sarà più, mai più…
Io non me la sento di condannare la decisione del signor Englaro; io credo sia stata dettata non dall’egoismo, ma dall’amore -oltre che, inevitabilmente, dal dolore e dallo sfinimento- e probabilmente avrei compiuto la stessa scelta, così come vorrei che fosse compiuta per me. Trovo invece riprovevole e disgustosa la strumentalizzazione che della vicenda hanno fatto le forze politiche, tanto di Destra quanto di Sinistra: preferisco non commentare il modo indegno in cui si è approfittato del dolore di una famiglia per scopi che non so definire altrimenti che meschini.
Ci sarebbe ancora molto da dire, ma per il momento è meglio fermarsi qui; ci tengo solo a precisare che quanto è stato detto in questo articolo è del tutto personale e assolutamente da non collegare in alcun modo a “IL NOSTRO PAESE”; le opinioni e le idee espresse sono esclusivamente mie e solo a me devono essere imputate eventuali colpe, o inesattezze.
Mi permetto solo di aggiungere questo: nel bene o nel male, questa triste vicenda si è conclusa. Ora lasciamo in pace il cuore di chi soffre, ed il corpo di chi finalmente riposa.
E con questo è tutto. Alla prossima, vostro
Daniel Capurro