L’Odissea
L’Odissea
Grande musa per piacere
con il soffio del sedere
ora aiutami a narrare
dell’eroe il peregrinare,
già a casa è ogni acheo
perché ad Ulisse marameo?
Grazie a Giove ed a Giunone
tra gli Dei fu decisione
ad Ulisse finalmente
di tornar tra la sua gente.
Nel frattempo nella reggia
tutti a urlare e a far cureggia
con i proci rimpinzati,
sbronzi, fatti e stravaccati.
Il Telemaco poero figlio
lacrimava da ogni ciglio
la Penelope sbavava
da vent’anni senza fava;
ma un mattino nuvoloso
il Telemaco ringhioso
cominciò, tutto feroce
a sbraitare contro un proce.
Non l’avesse mai pensato,
Antinoo il Proce indemoniato
denunciò quella coperta
vista sfare a notte aperta:
“Quella vacca di Regina
sta facendo la meschina,
giunta è l’ora di abbozzarla
su, corriamo a caricarla!”.
A sentir dar di baldracca,
anzi peggio, vecchia vacca
il Telmaco reggente
scappò via tutto piangente
e così ad ora tarda
con la nave giunse a Sparta;
arrivò da Menelao,
l’abbraccio e gli disse ciao,
narrò tutto di sua madre
ma nulla seppe di suo padre.
Al risveglio l’indomani
Menelao… sì ma le mani:
“Su Telemaco, via smamma
che me frega della tu’ mamma?”.
Moglie, figlio, proci e Dei
nessun si faceva i cazzi suoi
e le donne poi eran fisse
a ricordare il regio Ulisse;
lui viveva tra pipe e seghe
e ripeteva: “io, un vo’ beghe”
e a Calipso dentro l’ano
gli ammollava il suo banano:
“Questa ninfa…che sedere
di Itaca un vo’ più sapere!”.
Così passarono anni sette
ma al calare delle tette
lui decise tutto ad un tratto
di fuggire quatto quatto;
costruì un bel pedalò
e a notte fonda se ne andò.
Navigava a passo lento
quando forte s’alzò il vento
e alla terza gran soffiata
la barchetta fu rigirata,
bestemmiando dalla rabbia
annaspò fin sulla spiaggia
ove stanco e tramortito
si sdraiò rincoglionito.
Sorvolavan gabbian rapaci
quando accorsero le feaci
e fu Nausicaa la tardona
prima a scorgere la favona,
che rizzataglisi sotto pancia
le pareva una gran lancia.
La tardona con un calcione
gli lanciò contro il pallone
per andarlo a ripigliare
e potergliela toccare.
E si svegliò il greco Ulisse:
“Vieni meco” Nausicaa disse
e lo portò dal padre Alcino
per mangiare e bere vino.
Qui durante il desinare
un aedo partì a narrare
di un cavallo in compensato
che una città avea conquistato…
“Porco Giove, Marte boia
stà parlando lui di Troia!”
disse Ulisse davanti ad Alcino
lacrimando come un bambino.
“Sono io di Itaca il re,
aiutatemi, pe’ piace’!”.
“Via, o raccontaci che gioia
tu provasti a bruciar Troia!”.
Per sei ore ininterrotte
narrò duelli, stragi e botte
e l’indomani fu narrato
del ritorno tormentato.
“Fra le tante strane cose
vidi un popolo in overdose,
molto buffe quelle genti
a biascicar stupefacenti;
ero sceso coi soldati
che restaron contagiati,
alcuni poi non vollero tornare
e lì rimasero a spacciare,
ripartimmo dimezzati
tutti quanti stralunati.
Scesi poi su un isolone
e vidi impronta d’un piedone,
s’era a far perlustrazione
ed orrenda fu la visione:
gigantesca la spelonca
d’un omon con vista monca:
la fava avea quel Polifemo
lunga quanto un nostro remo.
Tutti entrammo circospetti,
ansimavan forte i petti,
ma quel grosso orbo bestione
richiudendo il gran portone
urlò a noi tutti tremanti:
“Io vi mangio tutti quanti!”.
Ci furono molte anime vive
che ingoiò come le olive
ma grazie al furbo mio cervello
accecammo quel budello:
a Polifemo in sonno da mulo
fu cacciato un palo in culo
cacciò un urlo da tricheco
e per lo choc rimase cieco.
Navigammo molto lenti
fino all’isola dei venti
dove in un bosco fitto fitto
c’era un uomo a buco ritto
e da lì con gran fetore
ventilava a tutte l’ore;
era Eolo il cureggione
che donommi un gran borsone
“Tiello chiuso, caro Ulisse!”
solo questo lui mi disse
ma i soldati in mezzo al mare
questo vollero stappare.
Non riesco miei lettori
a parlar di tali odori:
mai sentito in cotal modo
un gran puzzo d’ovo sodo.
Remavamo a perdifiato
con il naso ben tappato
quando l’uomo di vedetta
ci avvisò di un isoletta.
Come appena fui sbarcato
sentimmo odore d’affettato
invitai i soldati all’attesa
ma corsero subito a fare spesa;
trovarono una baracchetta
che vendeva pane e porchetta
“Da Circe la Gran Maga,
e si mangia e poi un’si paga”
ma qui furon trasformati
in bresaole ed insaccati.
Non vedendo il loro ritorno
iniziai a cercarli intorno,
presto vidi la baracca
e lì dentro la baldracca:
sfoderai il mio zampone
e non subii trasformazione
lei con salto da cangura
m’agguantò la fava dura
e per un anno stammo all’opra,
io di sotto e Circe sopra,
finché un dì a mezzogiorno
mi disse: “Levati di torno”.
Grazie al vento fummo giunti
presso il regno dei defunti
ove io poteo parlare
con i morti di terra e mare;
davanti a loro stringevo le spalle
e toccavomi le palle,
ero in preda allo spavento
e dalle mele usciva vento;
s’incazzarono così i morti:
“Ci fai schifo Ulisse, sorti!”
e con calci assai violenti
fui rimesso tra i viventi.
Tanta fifa e poco coraggio
ma proseguiva il nostro viaggio,
non lontane erano le sirene
e già barzotto avevo il pene;
ai soldati per evitar guai
ben gli orecchi gli tappai
ed all’albero del vascello
fui legato per l’uccello.
Anismavan quelle porche
e dicevan cose sporche:
era un canto a luce rossa
e la mia fava divenne grossa,
gira, rigira, sbava ed annaspa
riuscii a farmi ‘na sofferta raspa.
Poi per colpa del maestrale
vedemmo un posto da star male:
nostra grande disperazione
d’esser giù nel meridione;
non trovammo alcun rifugio
contro lupara ed archibugio
tra di loro, brutti pulciosi,
si sparavano i mafiosi
e per via deste vendette
sei dei nostri si perdette.
Arrivammo dopo un mese almeno
in un isola dal divin terreno
ove c’eran assai bislacche
delle enormi e sacre vacche;
i soldati non vedevano l’ora
di mangiarle alla cacciatora.
Grande pranzo, tutti contenti
poi giù rutti e soffioni puzzolenti
ed al sentir quel carnevale
al Dio Sole prese male
e durante il navigare
rovesciocci tutti nel mare;
ben ripieni i miei soldati
ci rimasero affogati
mentre io, nuotando a rana
giunsi da Calipso, la puttana”.
“Di commozzione il cor s’invasa
si Ulisse, ti riporterò a casa,
or vai a letto e dormi in pace”
disse a Ulisse il re feace.
Ad Itaca con un veliero
fu portato il condottiero
e qui Minerva in apparizione
gli spiegò la situazione
e lo volle trasformà
in un sozzo vucumprà.
Se ne andava incontro ai proci
con occhiali ed orologi
ma nel cammino il re acheo
fu fermato dal bovaro Eumeo:
“Hai tu mica un accendino?”
“Sono Ulisse io, cretino!”;
baci abbracci e grandi pacche
tra Ulisse e l’omo delle vacche
che si fece perdonare
poi facendosi inculare.
A Telmaco l’indovin predisse
il ritorno del babbo Ulisse
e si recò indi dal pastore
per cercare il genitore:
s’incontrarono e restaron muti
poi giù pianti, singhiozzi e sputi
e decisero in tutta fretta
contro i proci la vendetta.
Si avviarono al castello
a far cessare quel bordello
e nel vedere il regio portone
mollò Ulisse un cureggione
che sul colpo uccise Argo,
da vent’anni era in letargo.
La Penelope diventava pazza
senza un uomo e senza mazza,
quanti anni, una ventina
senza finire a pecorina,
troppo stanca d’usare il dito
aspettando il suo marito;
scese giù nella cantina
a piglia’ l’arco la regina
e sfinita dalla voglia
ai proci apparve sulla soglia:
“A tender l’arco tutti invito
alla faccia di mi’ marito
e a chi tirerà più lontano…
…ciuccerò palle e banano!”.
Ulisse già entrato nella reggia
con vampate di cureggia
infiacchito aveva i proci
che alla prova furon incapaci;
“Fai tirare anche il meschino!”
indicando Ulisse urlò Antino,
ma fu proprio sfortunato
perché il dardo dal re scoccato
gli si andò poi a conficcare
dove l’uomo suole cacare.
A vendetta terminata
prese Ulisse una pomata
ed a Penelope con i guanti
la spalmò dietro e davanti
giacchè i fori da tempo inusati
bene andavan lubrificati.
L’epopea è terminata
con una gran bella trombata,
e a coloro senza nicchie
(in prima fila c’è anche i’ Bicchie)
pregasi usare il braccio destro
sol per bere del Galestro.